bonatti cervino

L’ultima grande impresa di Walter Bonatti

La sera del 20 febbraio 1965, intorno alle 19.30, l’alpinista Walter Bonatti era appollaiato in un precario bivacco sulla parete Nord del Cervino, a quasi 4.000 metri d’altezza. A Zermatt, il paese svizzero alle pendici di una delle montagne più celebri e iconiche delle Alpi, oltre duemila metri più in basso, una luce si accese per chiedere aggiornamenti.

Bonatti era da solo, esposto alle freddissime temperature dell’inverno in alta montagna. Sparò prima un razzo bianco, poi uno verde; prese il terzo che aveva con sé, rosso, e lo gettò giù dalla parete. Non gli serviva più: era quello con cui avrebbe dovuto segnalare la sua intenzione di ritirarsi. Con i razzi che aveva sparato, invece, aveva appena annunciato agli amici che la mattina dopo avrebbe superato il punto oltre il quale non era più possibile tornare indietro se non dopo aver concluso la sua ultima, ambiziosissima scalata: la prima in solitaria invernale sulla Nord del Cervino, su una via mai percorsa prima che attraversava la parete quasi in linea retta.

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Due giorni dopo, il 22 febbraio 1965, Bonatti avrebbe raggiunto la croce in vetta al Cervino portando a termine la sua ultima, spettacolare impresa nell’alpinismo estremo, dopo vent’anni in cui ne aveva spostato avanti i limiti e le possibilità, come pochissimi altri prima e dopo di lui. Si ritirò dalle scalate, dopo essere stato ostracizzato dall’alpinismo istituzionale e criticato dai giornali, per dedicarsi ai reportage d’avventura e di esplorazione che riempirono la seconda parte della sua vita.

 

Nel 1965 Bonatti aveva 35 anni, un’età in cui, soprattutto all’epoca, un alpinista era ancora nel pieno delle sue possibilità. Era nato a Bergamo ed era stato fin da giovanissimo un promettente ginnasta con la passione per la montagna. Le sue prime scalate le fece alla fine degli anni Quaranta, raggiungendo le pareti delle Alpi lombarde la domenica mattina dopo il turno di notte allo stabilimento siderurgico milanese della Falck. Presto si spostò nel massiccio del Monte Bianco, portando a termine nel 1951 la prima ascensione del Grand Capucin, un pilastro di roccia appoggiato al Mont Blanc du Tacul, dopo diversi tentativi falliti per il maltempo. Il grande alpinista Gaston Rébuffat la definì «la più grande impresa su roccia realizzata fino ad oggi».

Nel 1954 venne scelto per far parte della spedizione italiana al K2, nel Karakorum pakistano, la seconda montagna più alta del mondo e considerata tra le più pericolose e difficili da scalare.

Quella spedizione, conclusa con successo ma andata in realtà terribilmente storta, fu il grande punto di svolta nella carriera di Bonatti, ma più in generale della sua vita. Nessuno aveva mai salito il K2, e il Club Alpino Italiano, l’Istituto Geografico Militare e il governo volevano ottenere il prestigioso primato, che avrebbe dato lustro all’Italia nel mondo. I due alpinisti designati per raggiungere la vetta erano gli esperti ed affermati alpinisti Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, ma il più forte era evidentemente il giovane Bonatti, la cui prestanza fisica e ambizione erano viste con sospetto dai capi della spedizione.

Oggetto di infinite polemiche, la verità su quello che successe, e sulle gravi colpe di Lacedelli e Compagnoni che avevano messo gravemente in pericolo la vita di Bonatti e Mahdi, sarebbe emersa solo tra gli anni Novanta e Duemila, quando diverse inchieste, alcune commissionate infine dal CAI, fecero chiarezza confermando la versione di Bonatti.

 

Nel 1965 Bonatti si convinse che avrebbe smesso con l’alpinismo estremo. Era ormai logorato dall’attenzione e dai frequenti attacchi della stampa, e gli fu offerta la possibilità di esplorare il mondo scrivendo reportage per la rivista Epoca, cosa in cui sarebbe stato molto apprezzato – aveva anche un particolare talento per la scrittura – e che avrebbe riempito il resto della sua vita.

Nonostante avesse già fissato un viaggio in Nord America per la primavera, Bonatti non resistette alla tentazione di salutare l’alpinismo con un’ultima, grande scalata delle sue. «Ho deciso, contravvenendo alle mie promesse, aprirò una parentesi e la richiuderò subito dopo senza rimpianti. Tenterò dunque la nuova via sulla parete Nord, e sarà necessariamente d’inverno: quest’estate un oceano mi separerà dal Cervino».

Il 1965 era il centesimo anniversario della prima, storica ascesa del Cervino, realizzata da sette alpinisti guidati dall’inglese Edward Whymper e dal francese Michel Croz in quella che fu contemporaneamente l’ultima grande impresa dell’epoca della conquista delle Alpi e la prima grande tragedia dell’alpinismo. Quattro membri di quella spedizione del 1865, infatti, morirono durante la discesa precipitando dalla cresta dell’Hörnli, dopo aver battuto di un giorno, in una serrata competizione, la spedizione italiana di Jean-Antoine Carrel che stava salendo dal versante opposto.

Ma se la via di Whymper è una scoscesa cresta percorsa oggi da decine di persone al giorno nei mesi estivi, la Nord è tutt’altra storia. È una parete di roccia e ghiaccio ripida e sempre in ombra, una delle “tre grandi pareti Nord” delle Alpi, insieme a quelle dell’Eiger e delle Grand Jorasses, che fu scalata soltanto nel 1931. Da allora era stata ripetuta poche volte, e soltanto una d’inverno, quando le condizioni di salita sono estremamente più difficili e pericolose per il freddo, l’imprevedibilità del meteo e il maggiore pericolo di frane e valanghe. Ci erano riusciti nel 1963 i due fratelli svizzeri Franz e Toni Schmid in una grande ascesa, passando però per una via meno diretta rispetto a quella scelta da Bonatti, che aggirava gli ostacoli più complessi.

Bonatti ci provò una prima volta il 10 febbraio, insieme a dei compagni, ma dovette rinunciare per una tempesta che li sorprese in mezzo alla parete facendoli rischiare grosso per una notte intera e costringendoli a ritirarsi in fretta la mattina dopo. Gli altri lo lasciarono solo a Zermatt, dovendo tornare ai propri lavori, e Bonatti arrabbiato minacciò di fare la scalata da solo. Quella che all’inizio era più che altro una provocazione, però, lo convinse sempre di più nei giorni successivi fino a sembrargli la cosa più ovvia.

 

Salire da soli una parete alpina significa autoassicurarsi, con varie tecniche perfezionate nel tempo: ai tempi di Bonatti quella più sicura – relativamente – prevedeva sostanzialmente di allestire un ancoraggio con dei chiodi, salire per la lunghezza della corda (più o meno quaranta metri) fissando qualche altro precario chiodo alla parete per proteggersi dalle eventuali cadute, e allestire una seconda sosta più in alto. A questo punto, ci si calava fino alla sosta precedente, si recuperava l’attrezzatura e si saliva di nuovo, rimuovendo i chiodi per poterli riutilizzare.

Significava, in pratica, percorrere la parete due volte in salita e una in discesa, quindi impiegando moltissimo tempo. Nonostante si fosse tecnicamente legati, quando si andava in solitaria ai tempi di Bonatti era preferibile non cadere mai, per evitare di verificare la precaria tenuta degli ancoraggi.

A questo poi si aggiungeva un’attrezzatura pesante e rudimentale, e una tecnica di progressione macchinosa che sarebbe stata rivoluzionata pochi anni più tardi dall’invenzione della “piolet-traction”, grazie all’introduzione delle punte frontali sui ramponi. Ai tempi di Bonatti, invece, i ramponi avevano le punte solo sotto e si usava una sola piccozza, procedendo tenendo il fianco rivolto verso la parete e dovendo scavare spesso dei gradini per superare le parti più ripide, un’operazione estenuante e macchinosa.

bonatti cervino

Il 18 febbraio Bonatti si fece accompagnare fino alle pendici della parete Nord del Cervino da alcuni amici, per simulare una semplice gita ed evitare di attirare le attenzioni di chi, tra giornalisti e alpinisti, osservava da vicino i suoi spostamenti. Arrivato al momento di attaccare la via, raccontò nel suo libro I giorni grandi, fu preso da una grossa crisi emotiva che lo portò diverse volte a decidere di rinunciare, salvo poi cambiare idea all’ultimo.

Il primo giorno di scalata procedette rapido e senza intoppi: Bonatti raccontò che non sentiva la fatica e che andò di buona lena fino al calare del buio. Dopo la seconda notte di bivacco in parete, proseguì la scalata superando il delicatissimo passaggio della Traversata degli Angeli, un tratto di 120 metri di rocce lisce e ripide da percorrere in orizzontale per poter aggirare un enorme strapiombo impossibile da salire direttamente. Passò così la terza notte in parete, mangiando le poche provviste che aveva con sé e di cui man mano si liberava buttandole dalla parete per ridurre il peso dello zaino. Ogni notte, raccontò, era sempre più tormentato dalla solitudine, dalle preoccupazioni, e dalla consapevolezza che sarebbe stata la sua ultima volta in un ambiente simile.

Il 21 febbraio Bonatti superò gli strapiombi della Nord, impossibili da percorrere calandosi in discesa: per tornare indietro, a questo punto, doveva per forza arrivare in cima, e scendere dalla via normale. «Sto sfiorando i limiti oltre i quali si sconfina nell’impossibile. Mi sento talmente fuori dal mondo che quando penso a qualcosa di bello e umano, vengo afferrato dall’emozione».

Allestì il suo quarto bivacco in cui avrebbe trascorso l’ultima notte in parete, con 30 gradi sotto zero, seduto su un gradino di roccia di 30 centimetri con i piedi a penzoloni, senza praticamente dormire. La mattina dopo, mentre intorno a lui volavano gli aerei di chi aveva ormai saputo del suo tentativo e voleva vederlo da vicino, attaccò la parete per l’ultimo tratto della scalata, superando uno strapiombo di 30 metri e proseguendo poi dritto verso la cima. Verso mezzogiorno sentì delle voci, che scoprì poi dopo appartenere a due guide alpine che avevano salito la via normale per raddrizzare in suo onore la croce di vetta, divelta poche notti prima da una tempesta. Nel primo pomeriggio del 22 febbraio, Bonatti si affacciò in cima e la vide riflettere i raggi del sole qualche decina di metri più in alto, ormai fuori dai pericoli della parete Nord che aveva superato da solo.

Da allora la via Bonatti è stata ripetuta poche decine di volte: pochissime per una via della sua fama, a conferma della sua difficoltà e della portata della salita di Bonatti, in solitaria invernale e prima della nascita della tecnica della piolet-traction, che avrebbe reso più veloce salire le vie di ghiaccio più ripide.